Misericordia e Compassione


Padre David riflette sul tema della misericordia e compassione che troviamo nel Vangelo di Domenica.

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“Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perche’ erano come pecore senza pastore” (Marco 6,34).

Gesu’ “ebbe compassione”. Questo e’ uno dei verbi che meglio caratterizza il ministero di Gesu’ tra la gente. Misericordia e compassione sono intimamente intrecciati tra loro in tutto il linguaggio biblico. All’inizio della Bolla di indizione “Misericordiae Vultus”, Papa Francesco spiega: “Gesu’ Cristo e’ il volto della misericordia di Dio” (1). Infatti, mentre Gesu’ cammina tra la gente, vede la loro sofferenza alla quale risponde con una grande effusione di compassione. Gesu’, come il Padre, ha uno sguardo di compassione sul mondo e soffre con l’umanita’. Compassione, in Latino, letteralmente significa “soffrire con”. Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, non e’ indifferente al mondo. Non e’ lontano dalla sofferenza dell’umanita’, ma abbraccia chi soffre, prendendo su di se questa sofferenza. Il famoso pensatore contemporaneo, il russo ortodosso, Padre Alexander Men, ha insistito dicendo che questa e’ la prerogativa del cristianesimo sulla sofferenza: Dio non elimina magicamente la sofferenza ma la condivide con l’umanita’. Dio soffre con noi. La storia della salvezza rivela la misericordia e compassione di Dio in quanto Dio non abbandona l’umanita’ nella sua sofferenza, ma ne condivide il peso. E molti santi hanno scoperto il volto di Cristo proprio in coloro che soffrono.

Nella lingua greca, nel Nuovo Testamento, il verbo “avere compassione” (splangkhnizomai), viene usato undici volte da Gesu’ e solo rivolto a lui. Gesu’ viene inondato dalla compassione mentre osserva la sofferenza dei malati, delle persone sole, di chi e’ nello strazio e privato di tutto. Quando incontra il lebbroso (Marco 1,41), la vedova che ha perso il figlio (Luca 7,13), i due ciechi di Gerico (Matteo 20,34) e le folle (Matteo 9,36; 15,32), Gesu’ agisce per compassione. Inoltre, Gesu’ usa questo verbo per descrivere i protagonisti nelle sue parabole, come nella parabola del Buon Samaritano (Luca 10) e in quella del Figlio Prodigo (Luca 15). Il momento chiave nelle due parabole e’ quello della compassione. Nella parabola del Buon Samaritano, Gesu’ descrive il Samaritano come colui che si imbatte nel ferito sulla strada Gerusalemme-Gerico: “Un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione” (Luca 10,33). La compassione distingue il Samaritano dalle persone pie, devote che erano passati per la stessa strada prima di lui, i quali, vedendo il malcapitato, sono passati oltre senza fermarsi. Nella parabola del Figlio Prodigo, Gesu’ descrive il padre, che vede il suo figlio ribelle, che si era ribellato contro di lui sperperando la sua eredita’, ritornare a lui: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si getto’ al collo e lo bacio’” (Luca 15,20).

Il verbo, “essere riempito di compassione” (splangkhnizomai in Greco), e’ usato solo nei vangeli di Matteo, Marco e Luca e in nessun altro luogo nel Nuovo Testamento. Questa parola appare raramente nella letteratura greca prima che fossero redatti i vangeli e sembra essere una parola di origine semitica. Deriva dalla parola “splangkhne” che letteralmente significa interiora o viscere – la parte piu’ interna del corpo. Mentre il pensiero e’ identificato con il cervello che si trova nella testa e l’amore si identifica con il cuore, il verbo “splangkhnizomai” in Greco da’ un senso materiale al sentimento della compassione – noi proviamo compassione nella parte piu’ imtima del nostro essere, visceralmente. La compassione si riversa sull’oggetto di compassione e l’abbraccia – il Samaritano e il padre del figlio prodigo sono incarnazioni di questo movimento. E’ interessante notare che in entrambe le parabole la compassione provoca una serie di verbi che descrivono i fatti che seguono il sentimento di compassione – il prendersi cura dell’uomo ferito e la celebrazione del ritorno del figlio. Compassione non e’ un sentimento che passa, ma il motore d’azione che trasforma la vita.

Chiunque conosca la lingua araba o ebraica puo’ identificare la connessione con le lingue semitiche. La parola “misericordia”, in arabo (rahmah) e in ebraico (rahamim), ha la stessa radice della parola “grembo”, in arabo (rahm) e in ebraico (rehem). Cosi’ il termine misericordia nelle lingue semitiche evoca anche un significato corporale, il grembo materno, dove ha inizio la vita. L’essere umano dal momento della sua origine nel grembo (rahm), creato a immagine e somiglianza di Dio, e’ generato per riflettere la misericordia (rahmah) di Dio. Questa immagine di Dio e’, prima di tutto, l’immagine di un Padre / Madre, misericordioso e compassionevole. Ed e’ anche qui che la riflessione biblica, nel cuore della tradizione giudaico-cristiana, appare nella tradizione islamica all’inizio del Corano dove Dio e’ descritto come il compassionevole e misericordioso (rahman e rahim), due parole con la stessa radice del grembo materno. Nell’Islam, questi sono i due attributi fondamentali di Dio.

Una posteriore tradizione mistica ebraica identifica l’atto della creazione ad un atto di misericordia. Dio deve diminuire la sua presenza al fine di far posto al mondo – un atto di misericordia e di amore su cui si fonda tutta la creazione. Mentre in principio Dio riempie tutto il tempo e lo spazio, contrae poi se stesso come un preludio necessario alla creazione. La persona umana, creata a sua immagine, e’ chiamata a imitare questo atto di autolimitazione cosi’ da far posto ad un altro essere. La parabola del padrone misericordioso in contrapposizione al servo senza pieta’, sottolinea l’importanza di imitare la misericordia di Dio. Il servo che deve molto al suo padrone e’ perdonato a causa della compassione del suo signore, “Impietositosi del servo, il padrone lo lascio’ andare e gli condono’ il debito” (Matteo 18,27). Ma, in questa parabola, il servo, da poco condonato del debito, e’ incapace di avere una simile compassione per il suo compagno, che gli deve molto meno di quanto lui doveva al suo padrone. E mentre il suo compagno lo supplicava, “Egli non volle esaudirlo, ando’ e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito” (Matteo 18,30).

Nella parabola finale nel Vangelo di Matteo, Gesu’ insiste nell’affermare che la nostra salvezza dipende dal nostro andare verso gli altri, specialmente verso coloro che soffrono. Nella descrizione del Giorno del Giudizio, il re dice a quelli che stanno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredita’ il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perche’ io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Matteo 25,34-36). Gesu’ rivela a quelli che erano misericordiosi e compassionevoli che lui stesso era l’affamato, l’assetato, lo straniero, era nudo, malato, in carcere. La rivelazione e’ duplice: Gesu’ e’ sempre dalla parte dei sofferenti e i misericordiosi saranno benedetti. I misericordiosi riceveranno misericordia, Gesu’ ha promesso nel discorso della montagna (cf Matteo 5,7), e la sua parabola finale mostra il compimento di questa promessa.

Misericordia e compassione devono stringere le nostre viscere mentre guardiamo il mondo che soffre. Devono motivare il nostro alzarci al mattino e il nostro uscire a sanare un mondo in rovina. In questo modo non solo noi imitiamo Dio e seguiamo Cristo, ma ci ricolleghiamo anche con le origini stesse della vita. In un mondo dove l’egoismo e la crudelta’ sembrano a volte avere il sopravvento, il discepolo di Cristo deve raggiungere i piu’ bisognosi di misericordia e di compassione per dare testimonianza al Regno di Dio che e’ gia in mezzo a noi.

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